Basta un click per essere su etnografia.it, il blog dell'antropologa
ligure Alessandra Guigoni. Occhi vispi, curiosi, attenti, un concentrato di
energia e vitalità allo stato puro e tanta voglia di fare, guardare, ascoltare
e viaggiare.
Nel suo mondo fatto di mondi, trovano posto il cibo, le biodiversità, la
cucina sostenibile e contemporanea, gli ecosistemi culturali e ambientali che
si fondono con moda, filosofia e religione. Ma il suo vero culto è soprattutto
quello del cibo sardo.
L'abbiamo intervistata in occasione di un viaggio in Sardegna, dove il
destino e il suo carattere forte e determinato l'hanno portata anni fa a vivere
e lavorare.
Ti occupi da sempre di antropologia del cibo e nello specifico sardo, tutti vorrebbero sapere perché in un’isola la tradizione culinaria sia prettamente pastorale. Che rapporto hanno i sardi con il mare?
In realtà, a ben vedere, gran parte delle
cucine italiane tradizionali è di terra, compresa quella ligure, regione in cui
sono nata e cresciuta. Ad esempio la selvaggina era un alimento da re, non il
pesce. La carne era in cima ai desideri dei ceti popolari, che ne mangiavano
poca, parliamo di età moderna naturalmente. Le cucine “alte” storicamente, sono
stata improntate al consumo di prodotti di terra più che di mare. Il pesce era
un alimento prevalentemente da poveri, e usato in Quaresima. Solo
recentemente la cucina di mare è diventata, giustamente, un must, per la
leggerezza, la bontà e la salubrità. Certo ci sono culture gastronomiche
regionali in cui il pesce è valorizzato particolarmente, come a Napoli, nelle
Puglie, in Sicilia. Del resto si è sempre fatto di necessità virtù, e alcune
delle pietanze più straordinarie sono nate per bisogno. Per farti un esempio:
in Sicilia c’è un piatto, le sarde a beccafico, che appunto costituiscono una
mimesi di un piatto di carne, volatili preziosi, con le umili sarde.
La Sardegna è un’isola a vocazione
agricola e pastorale, storicamente, e il mare è sempre stato considerato, a
ragione, foriero di guai: dal mare sono arrivati Cartaginesi, Romani, Barbari,
Mori, e poi Spagnoli, e infine i Piemontesi, nel Settecento: invasori insomma.
Inoltre a parte le numerose razzie barbaresche nel corso dei secoli, le piane
costiere con i loro stagni erano ambienti malarici, insalubri. La popolazione
pur riconoscendo il valore del mare e delle sue risorse, ha sempre cercato di
tenersene alla larga. Sono poche le città sul mare, se fai caso, e fortificate:
Alghero, Castelsardo, Cagliari, Carloforte, ecc. sono dotate di ampie mura
difensive. “Chi ruba viene dal mare”, recita un proverbio sardo. Però ci sono
alcune ricette tipiche sarde che prevedono il pesce, come sa burrida cagliaritana, che è di origine
medievale. Si fa con il gattuccio di mare, le noci e l’aceto. Da provare!
Oggi
tutto è cambiato e trovi ottimi pesci e molluschi cucinati splendidamente in
tutta l’isola. Ma quando arriva l’ospite non gli si prepara una zuppa di pesce
o un’orata bensì su porcheddu, cotto lentamente per ore all’aperto,
e a fine pasto una fetta di pecorino sardo
I matrimoni sardi e le feste di paese hanno in sé il culto della socialità e della condivisione del cibo: quanto è importante per un popolo riconoscersi in un piatto?
Direi che riconoscersi in un piatto è
fondamentale. Tutti noi abbiamo bisogno di identificarci in qualcosa, e i
consumi alimentari, al giorno d’oggi, marcano le nostre identità individuali e
collettive. Siamo ciò che consumiamo e consumiamo ciò che desideriamo
diventare.
Certi cibi sono status symbol, e
attraverso il loro consumo le persone demarcano la propria posizione
socio-economica, pensa solo ai cibi di lusso! I sardi non fanno eccezione, nella logica
che guida i loro consumi. I famosi spuntini in campagna, che in realtà sono pranzi
a sette portate, pensa alle feste patronali (Sant’Antonio, San Marco, San
Giovanni), che sono molto sentite, pensa al carnevale, che è festeggiato in
ogni paese e città dell’Isola, con riti e con dolci come zipppulas, parafrittos,
bugnolos ecc. e soprattutto pensiamo
ai riti di passaggio individuali, come battesimo e matrimonio: sono momenti
rituali in cui il cibo condiviso, donato, ha una importanza capitale.
Che differenza c’è tra la cucina sarda, quella continentale e il resto del mondo?
Bella domanda. Come sai vivo in Sardegna
da 23 anni, e sono genovese. Penso di conoscere abbastanza bene la cucina
sarda, anche se ogni giorno scopro qualcosa di nuovo e di entusiasmante, e il
mio sguardo da “fuori” mi ha permesso, forse, di notare cose che spesso si
danno per scontate e normali. Posso dirti che l’insularità ha determinato due
fenomeni interessanti e correlati: la conservatività della cucina sarda e la
capacità di “sardizzare” gli elementi esterni.
Gli esempi di conservatività sono
tantissimi! Il patrimonio agroalimentare sardo conserva prodotti, pietanze e
biodiversità scomparse altrove. I dolci ne sono un esempio lampante: ne
esistono più di 120 tipologie, la seada
è solo uno di essi, e alcuni sono assolutamente straordinari, veri e propri
gioielli di pasta di mandorle e zucchero di origine seicentesca.
La capacità di rendere locale,
personalizzandolo, ogni elemento sardo lo riscontriamo ad esempio con le piante
americane, arrivate dopo la scoperta di Colombo, in Europa e in Sardegna. Il
pomodoro è un jolly della cucina sarda, e i pomodori secchi sardi sono
straordinari; con le patate gli ogliastrini hanno saputo riempire i culurgiones (ravioli a sacchetto)
rendendolo un ripieno gustoso e unico nella sua semplicità e umiltà della
materia prima.
La Sardegna e il pecorino, una storia d’amore millenaria. Raccontacela in quattro righe.
Solo 4? Impossibile! La Sardegna, lo sai,
ha ben 3 DOP basate sul pecorino: il Pecorino romano, il Pecorino sardo e il
Fiore sardo. L’allevamento delle pecore è millenario e la pecora sarda ha delle
caratteristiche molto positive sia come animale da latte sia come animale da
carne. Il latte ovino viene lavorato da oltre 80 tra caseifici industriali e
minicaseifici ed esistono, oltre ai classici pecorini, anche dei prodotti molto
innovativi, come erborinati, a crosta fiorita, a crosta lavata, a crosta e
pasta conciata sempre derivati da latte di pecora (o capra). Una casara, Maria
Atzeni, produce anche una mozzarella ovina di assoluta bontà.
Ma l’isola non è solo pecorino: si
producono dei caprini molto interessanti, come quelli di Monica Saba, e dei
formaggi vaccini, come il Casizolu, che è anche presidio Slow Food, di assoluta
attrattiva.
Le fonti storiche parlano di esportazioni
dei formaggi vaccini e ovini sardi sin dal XIII secolo, perciò non stupisce che
ci siano decine di PAT (prodotti agroalimentari tradizionali) sardi dedicati ai
prodotti lattiero-caseari. E a luglio si aggiungerà un nuovo PAT alla numerosa
famiglia, a cui ho lavorato personalmente. Una sorpresa, di cui se vuoi
riparleremo quando uscirà la notizia sulla Gazzetta Ufficiale.
Siamo portati a pensare all’antropologo come allo studioso del passato. Ma esiste anche una antropologia moderna e applicativa. A questo proposito: qual è la differenza tra il marketing tradizionale e il marketing antropologico? Quale ha più successo?
L’antropologo è immerso nella
contemporaneità, se è un bravo antropologo, e può studiare il passato ma per
capire il presente. Il marketing è una frontiera in cui talvolta mi trovo a
operare ma rimane per me, appunto, una frontiera. A volte certo marketing è un
po’ fuffa, e io mi ritengo una persona troppo concreta, una che parte sempre
dalla materia prima e dallo studio della storia e della cultura del prodotto
per valorizzarlo. Mi piace il foodtelling, applicare lo storytelling al mondo
del cibo, utilizzare categorie e concept antropologici per valorizzare
produzioni locali e produttori. Se così facendo faccio anche marketing oltre
che ricerca/azione ben venga, perché al giorno d’oggi i produttori locali e le
comunità del cibo sono schiacciate dalle produzioni globali e dalle
multinazionali, e il made in Italy è spesso contraffatto. Qualsiasi strumento
sia utile a frenare questi fenomeni è benvenuto. La mia missione è aiutare la
comprensione della ricchezza, della storicità, della complessità dei prodotti,
le loro caratteristiche meno conosciute, preziose, che aspettano solo di essere
valorizzate e fatte conoscere.
In passato era nutrimento, oggi nutrizione. Il cibo lo vogliamo a chilometro zero, sano, biologico e il veganesimo avanza: in chiave antropologica come possiamo definire questo lungo processo storico della alimentazione umana?
Lo definirei un processo naturale, se non
fosse che il cibo è cultura! Mi spiego meglio: da quando l’uomo ha scoperto la
cottura dei cibi, ha scoperto la cucina, le materie prime sono state manipolate
sapientemente. Dallo stato di natura siamo passati allo stato di cultura. Non
mangiamo più prede crude, non raccogliamo frutti selvatici. Alleviamo,
coltiviamo, cuciniamo. Ciò accade da millenni. Pensa ai cibi fermentati ad
esempio: vino, pane, formaggio. Si fanno da millenni ma solo nell’Ottocento si
sono scoperti batteri, muffe e lieviti, e le loro azioni. C’è molta sapienza
nell’uomo, e voglia di conoscere e sperimentare. Al giorno d’oggi, in Occidente
almeno, dove abbiamo debellato la fame e ci nutriamo per piacere, mangiamo per
appetito e non per fame, lo studio del cibo si è sviluppato enormemente e con
esso la consapevolezza delle proprietà del cibo. Vogliamo mangiare bene, e cibi
salutari, per la nostra salute, alla ricerca della longevità, dell’equilibrio e
della sostenibilità ambientale. Non sono fenomeni di massa ancora, ma c’è più
attenzione al cibo, e le industrie alimentari, avendo captato il trend,
propongono da qualche anno prodotti senza o a basso contenuto di zuccheri,
grassi eccetera. Hai visto i prodotti “senza olio di palma” ad esempio? Il
dibattito pubblico che si è generato ha aumentato, seppur di poco, la
consapevolezza che le aziende produttrici usano grassi di scarso valore ed
economici per massimizzare il profitto.
Possiamo inserire il cibo e la cucina italiana tra i “beni culturali” da tutelare come patrimonio dell’umanità?
Assolutamente sì. Il cibo è un bene
culturale come un’opera d’arte, un monumento storico, un quadro. Tra il patrimonio
immateriale tutelato dall’Unesco c’è già la dieta mediterranea e presto altri
beni culturali alimentari verranno iscritti. L’importante è capire che i beni
culturali alimentari, contrariamente ad un quadro, un gioiello, un monumento,
non sono statici, ma dinamici. La dieta mediterranea cambia e cambierà,
arricchendosi di saperi e pratiche. Patrimonializzare poi non vuol dire
museificare, ma rendere bene comune, fruibile, sensibilizzare l’opinione
pubblica, i portatori di interesse, e i decisori. Solo così sopravvivono i beni
culturali, “usandoli” con intelligenza, facendoli propri. Sono per l’apertura e
la fruibilità di tutto, detesto i monumenti lucchettati. Così non amo chi dice
che una pietanza (metti il risotto alla milanese, o la pasta al pesto genovese,
o sa panada sarda) non si può
rinnovare, non ci si può sperimentare sopra, perché “si è sempre stata fatta
così”. Studiando sulle fonti storiche, facendo interviste agli anziani, scopri
che non è affatto così. E poi la tradizione, parafrasando il compositore Gustav
Mahler, è conservare il fuoco, non adorare le ceneri.
La tua professione ti definisce tecnologica e dinamica e, nello stesso tempo, hai una materia di studio di grande rigore e precisione storica: come convivono in te queste due anime così diverse?
Chissà se convivono! Scherzi a parte
credo che in un mondo sempre più settorializzato, in cui i saperi sono
frammentati, occorrano anche persone che cercano di offrire una visione
d’insieme, e sappiano legare le varie anime dei food studies. Il rischio è una certa superficialità, ovvio. Ma c’è
un rischio maggiore, che non voglio correre: l’accademismo e la
parcellizzazione delle conoscenze e competenze. La torre d’avorio, la
specializzazione estrema, lo snobismo. Credo che chi studia abbia il dovere di
diffondere, divulgare e far conoscere il più possibile ciò che sa e ha
faticosamente capito. C’è tanto lavoro da fare, i social ad esempio sono pieni
di leggende metropolitane, superstizioni e teorie antiscientifiche sul cibo,
idee e concetti che molti prendono per oro colato. Non siamo tanto diversi
dagli uomini medievali in fondo, a fronte di tanta tecnologia abbiamo ancora un
pensiero pre-moderno, magico, a-scientifico.
Hai scritto tanti libri. Dovessi sceglierne di scrivere uno su un argomento diverso dalla tua professione, cosa tratterebbe?
Mi sto appassionando all’analisi
sensoriale e alle proprietà organolettiche dei prodotti. Da poco ho fatto il
corso ONAF per assaggiatrice di formaggi. Ne vado orgogliosa perché’ sono
partita da un profilo di studiosa, 20 anni fa, e oggi mi trovo a poter considerare
e valutare un alimento dalla A alla Z, è una sensazione bellissima per chi
crede nel potere della conoscenza, nel valore dello studio. Credo che ci sia
poca consapevolezza sul cibo, e si mangi troppo e male, in generale intendo.
Credo che le persone conoscano veramente poco del cibo che mangiano, storia,
cultura, ingredienti, provenienza, proprietà, rischi e vantaggi nel mangiarlo,
aromi e gusti del cibo di qualità. Mi piacerebbe scrivere qualcosa, ma insieme
ad altri esperti, su questo tema. Chissà!
Tre domande alle quali rispondere con una sola parola: cosa non manca mai nella tua dispensa? Qual è il tuo piatto forte? E quello che ti piacerebbe imparare a cucinare?
Non manca mai il formaggio sardo, anzi i
formaggi.
Direi che cucino poco, mi piace preparare
la pizza, la considero una genialata, che infatti da Napoli è diventata un
prodotto globale, amatissima in tutto il mondo, pur rimanendo un simbolo
dell’italianità. Farcisco la pizza con ingredienti sempre diversi, mi diverto a
sperimentare, mescolare.
Mi piacerebbe imparare a preparare alcuni
dolci complessi, a decorare con la ghiaccia reale. Ho amiche che producono dei
veri e propri capolavori, mi incantano. Mi accontento di studiarli,
fotografarli, farli conoscere e valorizzarli. A ciascuno il suo.
L’ultima domanda è, in realtà, un commento ad una citazione che porto sempre nel cuore:
La Sardegna è “Terra antichissima e forte dove tutto ha contorni netti e puliti, dove tutto è definito, colori, forme, amicizie, dove ancora esistono i valori umani, dove l'uomo si sente uomo, e dove la natura ci fornisce a piene mani la più ricca collezione di scultura forgiata e scolpita dal genio universale. La Sardegna è un amore che entra sotto la pelle."
Andreas Fiore
È una bellissima citazione, non si può
aggiungere altro se non… grazie, vi aspettiamo in Sardegna.