Jeremy Parzen, eclettico ambasciatore del vino italiano in USA: il mio vino a tutto rock

Jeremy Parzen 



Jeremy Parzen è nato a Chicago il 14 luglio 1967. Dopo aver ottenuto il suo dottorato di ricerca in letteratura italiana all'UCLA nel 1997 si è trasferito a New York City dove ha spostato la sua attenzione sul cibo e sul vino. Nel 1998 è stato capo scrittore di vini per l'edizione in lingua inglese de La Cucina Italiana. Nel 2007 ha lanciato il suo blog DoBianchi. Ha pubblicato innumerevoli articoli sull'enogastronomia italiana e firmato pubblicazioni su Decanter e Wine and Spirits, che lo ha nominato Master of Place nel 2017. Lavora come consulente nel settore del vino e della ristorazione dal suo ufficio di casa a Houston con la moglie e le figlie dedicando molto tempo alla sua passione per la musica. È stato nominato ambasciatore dell'Associazione Enotecari Professionisti Italiana (AEPI) nel 2018 per la sua grande conoscenza della vinificazione e la sua eccellenza nella comunicazione. 



Oggi vivi a Houston, in Texas, ma sei nato Chicago e ti sei laureato a Los Angeles. Illinois – California: 3000 km circa. Trasferirti in California è stato un tuo desiderio o lo hai fatto solo per studio? 
Sono nato a Chicago ma i miei si trasferirono in California quando ero molto piccolo. Erano gli anni della grande migrazione dei borghesi verso l’ovest. Son cresciuto a San Diego e poi ho fatto l’università a Los Angeles. 


Chicago è una città in cui si respira tanta musica (jazz, blues, soul, gospel) ma anche cultura teatrale e cinematografica. Nasce da qui la tua grande passione per l'arte dei suoni? 
Negli anni ho avuto modo di tornare a Chicago spesso, sia per il vino che per gli amici e diversi componenti della mia famiglia. Città meravigliosa, sia per il food che per il blues. La mia passione per la musica nasce però con il primo ascolto dei Beatles a sette anni. 


Ovunque vada, tra eventi e concorsi di vino, la stampa estera è sempre onorata e ossequiata. Siete consapevoli di essere molto fortunati ad avere la possibilità di viaggiare e conoscere a fondo uno dei paesi più sognati al mondo? 
Sono venuto in Italia per la prima volta nel 1987 al terzo anno dei miei studi universitari. Già molto prima che venissi per il vino, sono venuto per studiare all’Università di Padova, poi alla Normale di Pisa e in Vaticano. Il vino è venuto molto dopo. Nel frattempo l’Italia mi aveva già donato tanto e mi sento fortunatissimo anche per questo. Come ho scritto recentemente sul mio Instagram, “tramite la tua poesia, i tuoi dipinti, e i tuoi paesaggi, mi hai rivelato i segreti degli antichi”. 
Per questo e per le tante amicizie sarò eternamente grato. 


Il tuo blog DoBianchi nasce con una mission. Ci spieghi quale? 
Ho sempre cercato di dare voce ai vignaioli italiani e di offrire ai lettori anglofoni “una finestra umanistica”, una chiave di lettura dell’Italia del vino e non solo. 


Da sempre la cultura enogastronomica italiana nel mondo eccelle per qualità e molte sono le imitazioni e le sofisticazioni delle sue materie prime. Una stampa estera preparata, informata e professionale può essere di aiuto per tutelare sia il consumatore che i prodotti d’origine? 
Purtroppo il pubblico americano è poco attento ai prodotti Italian Sounding come si dice ormai. Secondo me il governo italiano dovrebbe impegnarsi ancora di più a istruire la stampa americana. La questione del “Parmesan vs Parmigiano Reggiano” e altri casi simili rimangono un problema e un ostacolo formidabile per i produttori italiani. 


Baby Boomers, Millenians, Generazione X. Ormai il vino si vende per comparti generazionali. Gusti, abitudini, tendenze e consumi diversi. Tu che sei uno dei protagonisti dell’orientamento delle scelte di mercato, cosa vedi nel futuro prossimo delle vendite di vino italiano? 
Il 2023 sarà sicuramente un anno difficile per il vino italiano negli USA a cause della crisi della logistica, dell’energia, e dei costi elevati per la materia prima come il vetro. Il prezzo della bottiglia sullo scafale sarà più alto rispetto agli anni di crescita della categoria. La cosa interessante del vino italiano secondo me è il fatto che ci sia qualcosa per tutti i comparti, dai naturaloni ai grandi collezionisti. I produttori che continuano a interagire in maniera robusta e quelli che sanno gestire bene la logistica saranno i protagonisti del settore, soprattutto in un momento in cui molti non vogliono più viaggiare per il vino negli USA perché i costi di viaggio sono anche quelli elevati. Ci vorrà chi ha volontà e coraggio di investire. 


Il racconto del territorio, la storia, l’identità culturale, i borghi e le comunità. I consumatori hanno sempre bisogno di narrazione, di viaggi, di sogni in un calice oltre che bere vino di qualità? 
Il vino italiano ha sicuramente una marcia in più perché la bottiglia italiana ti racconta sempre una storia interessante (mentre il vino francese, grazie al suo carattere omogeneo, è più monolitico). Il vino italiano ti trasporta virtualmente in Italia tra gastronomia e cultura, storie di persone e di luoghi. E quindi la comunicazione rimane sempre uno strumento fondamentale, anzi direi sine qua non, per i vignaioli italiani. 


Il vino si fa sempre più identitario e le scelte sono orientate verso microzone quasi sconosciute per chi vive all’estero. Come si riesce a comunicare l’identità e il territorio italiano nel tuo paese? 
Tra i professionisti e i collezionisti la localizzazione del vino è uno strumento importantissimo per la vendita e per la valorizzazione del prodotto stesso. Mentre i consumatori americani non saranno in grado di cogliere le sfumature delle microzone, gli addetti al lavoro usufruiscono facilmente e quotidianamente di queste info iperlocali. Ecco perché la figura del sommelier rimane un elemento indispensabile. 


I vini rosati italiani sono tanti e sono ottimi. Ogni regione ha il suo fiore all’occhiello ma non decolla come le sue cugine bollicine. Come orientare le scelte estere verso questo prodotto? 
Dal Pinot Grigio (quello vinificato tradizionalmente) al Rossese e al Cerasuolo… L’Italia del vino deve uscire dal paradigma rosé e pink wine, categoria dominata dai francesi ormai da più di mezzo secolo. Deve lanciarsi invece come prodotto autoctono e originale, elemento chiave per godersi l’Italia a tavola. I miei colleghi in Abruzzo stanno scoprendo che il Cerasuolo ha sempre un impatto maggiore quando chiamato appunto Cerasuolo anziché “rosé” o “rosato”. Vino al vino, come si suol dire. 


Non tutti sanno che… 
Pochissimi sanno che l’ampelonimo Aglianico non deriva da ellenico. I termini appaiono contemporaneamente nel ’500 italiano e quindi l’uno non può essere una derivazione dell’altro. Il termine ellenico fu coniato proprio in quelli anni e visto che Aglianico sicuramente era già noto, l’ampelonimo probabilmente precede l’etnonimo. 
E non chiedermi dell’etimologia del nome Sangiovese! (Non c’entra il “sangue di Giove”! Please!) 
E non tutti sanno che ero il chitarrista e uno dei compositori principali del gruppo pseudofrancese i Nous Non Plus.


Jeremy Parzen 




Foto Credits: Marcello Marengo 



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