Wine Writers: Maurizio Gily, il futuro dell'agricoltura tra scienza e bioetica




Chi sono i più famosi wine writers italiani? Le penne più intriganti, appassionate, raffinate, rivoluzionarie o irriverenti si raccontano in una serie di interviste che svelano curiosità e aneddoti di vita quotidiana. 


Maurizio Gily nasce a Torino nel 1958. Studia al liceo classico Cavour e dopo la maturità, incerto se indirizzarsi a lettere o filosofia, si presenta alla segreteria di Agraria
A 22 anni si trasferisce da Torino nel vicino Monferrato dove vive tuttora. Consegue un master in enologia a Piacenza, si occupa di vigneti come consulente in varie zone d'Italia (con alcune esperienze nel Nuovo Mondo) e di divulgazione tecnico – scientifica. 
È giornalista pubblicista e ha diretto fino al 2018 una rivista tecnica di settore Millevigne, Il periodico dei viticoltori italiani, con la quale continua a collaborare come freelance. E’ docente di viticoltura all'Università internazionale di Scienze Gastronomiche di Pollenzo. È giudice in vari concorsi nazionali e internazionali. Dal 2002 è un libero professionista. Lavora per aziende di ogni dimensione e per istituzioni pubbliche e consortili.

 
“L'unico modo per fare un ottimo lavoro è amare quello che fate.” (Steve Jobs) 
Dal liceo classico ad Agraria. Occuparsi di agronomia in Piemonte era una scelta scontata? Un mestiere quasi primigenio che diventa oggi interamente tecnologico. Quanto è cambiato il tuo lavoro nel tempo? La modernità e l’attualità del tuo lavoro è la chiave per amare quello che fai? 
Tutt’altro che scontata per un nativo cittadino, senza alcuna tradizione agricola familiare e per giunta provenendo da studi classici. Nemmeno i miei trisnonni erano campagnoli, per quanto ne so. Mio padre e i miei fratelli, ingegneri, la mamma insegnante. Però il babbo, che è morto molto giovane, ripeteva spesso una specie di mantra, quello del ritorno alla terra e noi per questo lo prendevamo in giro. Ho vissuto la campagna da bambino in una casa di contadini valdesi in Val Pellice durante le vacanze estive. Una specie di agriturismo, prima che ne esistessero sia il concetto che il nome. Credo che quell’esperienza di bambino in libertà tra campi, cani, vacche e il maiale di famiglia dopo lunghi mesi in città, oltre a trasmettermi la passione per la montagna, sia stata fondamentale per la mia scelta da adulto, che è stata una scelta di vita e non solo di lavoro, la scelta di vivere in campagna. Certo da quel tempo in agricoltura è cambiato quasi tutto. A volte anche troppo, e per alcuni aspetti è venuto il momento di tornare indietro. Senza respingere l’innovazione tecnologica, che è fondamentale, ma senza mai dimenticare che essa interagisce con un ecosistema vivente estremamente complesso e delicato, e di cui ancora ignoriamo molto. La tecnologia in genere interpone una macchina (in senso lato, può essere anche una app, un software etc.) tra l’uomo e la pianta, e può significare la perdita di un contatto diretto. Un esempio banale: ciò che vedi camminando tra i filari non sempre lo vedi da un trattore cabinato che viaggia a 10 km all’ora. E molti viticoltori sono diventati trattoristi più che viticoltori. Le aziende si ingrandiscono, si cerca di risparmiare sul personale, si cerca di fare i lavori in fretta. La tecnologia aiuta in questo, ma è un’arma a doppio taglio.


“Il cambiamento non cambia la tradizione, la rafforza. Il cambiamento è una sfida e un'opportunità, non una minaccia.” (P. Mountbatten) 
La figura del viticulturist (agronomo) in Italia non è scontata come all’estero. Le consulenze sono spesso viste con diffidenza in una realtà contadina come la nostra. Quasi sempre il tuo intervento propone elementi di cambiamento. Quanto serve guardare al futuro per preservare la tradizione? 
E’ una figura che ha cominciato a farsi strada solo nell’ultimo ventennio, prima oscurata da quella dell’enologo: in parte lo è ancora, anche se tutti dicono che la qualità si fa nel vigneto. Gli enologi hanno ovviamente anche una formazione in viticoltura, oggi la laurea triennale è in viticoltura ed enologia, ma poi di solito le strade si dividono; salvo rari casi nelle aziende chi si occupa di cantina si occupa poco di vigneto e viceversa. Però, a dispetto della celebre frase, tutte le cantine hanno un enologo, o più di uno, ma non tutte hanno un tecnico di campagna. Nella mia esperienza con la cooperazione, in particolare, il tecnico di campagna, quando c’era, era spesso (a volte lo è ancora) una specie di jolly tuttofare, agronomo ma soprattutto compilatore di pratiche, quando non all’occorrenza aiuto cantiniere, aiuto analista, aiuto standista. La retribuzione, di conseguenza. Ricordo che scrissi un articolo più di vent’anni fa che si intitolava Un grido dal sottoscala: è il tecnico viticolo. Dal lato utenti, l’agronomo è visto soprattutto come quello che dà indicazioni sui trattamenti, soprattutto sulla scelta dei prodotti. L’evoluzione continua in questo campo, nonché la comparsa di nuove malattie, comporta che gli agricoltori avvertono un maggior bisogno di assistenza, mentre per quanto riguarda tutto il resto sono meno consapevoli dell’importanza di un approccio scientifico. Non è un caso che la parola viticulturist non abbia un corrispettivo né in italiano né in francese, mentre nasce nel Nuovo Mondo, dove i saperi tradizionali erano meno presenti e quindi l’approccio più scientifico. Il che non è necessariamente un bene, perché i saperi tradizionali sono importanti: io ho imparato da certi contadini anziani quanto e più che all’università. Però ho anche la presunzione di aver tramesso a mia volta qualcosa. La formula vincente non è l’antagonismo tra scienza e tradizione, ma una dialettica feconda tra i due diversi approcci alla conoscenza. Premesso questo, va detto che la rivalutazione della figura del viticulturist nell’ultimo ventennio in Italia è stata notevole. Una parte del merito va al gruppo dei preparatori d’uva Simonit e Sirch, che, oltre a essere molto bravi nel loro lavoro di esperti e docenti di potatura, hanno saputo valorizzare il ruolo della competenza viticola anche a livello mediatico. Purtroppo il mondo attuale vive di suggestioni mediatiche. Gli anni ‘80 e ’90 furono quelli della celebrazione agiografica di alcuni winemaker famosi (i quali spesso si facevano vedere nelle cantine due volte l’anno per i tagli e poi alle fiere), oggi l’immagine dell’enologo è più aderente alla realtà, e questo è un bene per i giovani, meno compressi di allora dalla fama delle star, e nel contempo quella dell’agronomo di vigneto ha trovato maggiore visibilità.


“Le misure per contrastare i mutamenti climatici sono anche la strada per affrontare la crisi ed uscirne con un’economia green e a misura d’uomo.” (E. Realacci) 
In natura i tempi dell'evoluzione e delle mutazioni sono lenti e noi invece corriamo veloce. È vero, come molti affermano, che siamo in un punto di non ritorno? Esiste un modello green circolare dove ogni intervento umano è virtuoso? Quanto la ricerca è necessaria e urgente e quanto è risolutivo il biologico? 
Il biologico è un passo importante, ma non risolutivo. Non tutto ciò che rientra nell’agricoltura biologica è completamente sostenibile, almeno fino ad oggi. Il caso del rame è esemplare. I critici sostengono che l’approccio bio ha natura ideologica, non scientifica, basandosi sul falso presupposto che ciò che è presente in natura sia sempre meno impattante di ciò che inventa l’uomo, cioè chimica di sintesi e ingegneria genetica. In questa critica c’è una logica ed io in parte la condivido: però nel contempo non vedo nulla di male nell’essere ideologici. Tutto ciò che riguarda la bioetica è ideologia, dal testamento biologico all’aborto fino alla clonazione umana non c’è nessuna scelta che possa essere giustificata con la scienza, ma solo con la coscienza. Il biologico è sì un approccio ideologico. E con ciò? Il biologico ha alcuni problemi da risolvere prima di diventare la strada maestra verso la sostenibilità, ma i progressi sono continui e notevoli. Soprattutto, il biologico, a dispetto di chi parla a sproposito di ritorno nostalgico al passato, è oggi il principale driver dell’innovazione in agricoltura, anche per le crescenti limitazioni della normativa verso i prodotti chimici e, ultimamente, anche per l’impennata del costo dei fertilizzanti chimici. Tanto è vero che le stesse multinazionali della chimica stanno oggi investendo ingenti risorse di ricerca e sviluppo in questo settore, anche comprando e incorporando molte aziende più piccole che già lavoravano su prodotti alternativi (dopo averle per anni derise). Questi progressi non solo migliorano l’agricoltura biologica, ma migliorano l’agricoltura nel suo complesso, in quanto tutte le aziende beneficiano largamente di queste innovazioni, che sostituiscono sempre più spesso pratiche e prodotti più convenzionali, in quella che viene definita agricoltura integrata.


Il più grande rischio è non prendersi nessun rischio. (Mark Zuckerberg) 
Dirigere un magazine di settore comporta responsabilità e oneri. Ad oggi cosa è per te Millevigne? Enologia ed agronomia vanno sempre di pari passo? 
Millevigne ha sempre trattato viticoltura, enologia, economia, come altri media del settore. Per me è un’esperienza conclusa come fondatore, direttore e animatore, dal primo gennaio sono solo un collaboratore e ho lasciato in eredità alla rivista un board altamente professionale, tutto femminile. Millevigne è stata un’esperienza impegnativa, molto bella, in parte in conflitto con me stesso come agronomo, nel senso che divulgare la conoscenza non è proprio il modo migliore per farsi assumere come consulente. Ma di ciò non mi rammarico. Un rammarico invece è quello dell’incidenza piuttosto modesta di questa comunicazione. In Italia ci sono 4-5 riviste tecniche di settore, tra cui Millevigne, che si dividono poche decine di migliaia di lettori, quando in Italia i viticoltori da censimento cioè chi coltiva anche pochi filari, magari portando l’uva a una cooperativa, sono due milioni. Il che significa che i nostri viticoltori leggono poco. In California e in Australia la penetrazione della comunicazione tecnica è assai superiore, e anche la Francia ci stacca di parecchie lunghezze. Ultimamente molta comunicazione tecnica passa attraverso i social. I media come Millevigne si sono adeguati con pagine loro, ma molto passa attraverso i gruppi spontanei. Il che è un bene da una parte e un male dall’altra, perché si diffonde la falsa idea che l’informazione di qualità possa essere gratuita: questo porta a sua volta al tipico fenomeno del medico laureato su facebook che spiega come curare i tumori, e soprattutto alla confusione tra informazione tecnica e commerciale, con i social usati per profilare clienti a cui vendere qualcosa. Quando una cosa è gratis vuol dire che il prodotto che stanno vendendo sei tu. Ma è difficile spiegarlo. E’ il problema oggi di tutto il giornalismo, mica solo della divulgazione tecnica o scientifica. 
Continuità tra viticoltura ed enologia? Non sempre esiste. Sopravvive in molte aziende la mentalità che la viticoltura va per suo conto e poi in cantina l’enologo aggiusta quello che non va, come se l’enologo potesse fare i miracoli. Ma non è così dappertutto ovviamente, tutto dipende dalla direzione aziendale. Nelle cantine che funzionano lo schema parte da due domande: Quali sono i nostri obiettivi enologici? Ma prima ancora, qual è la nostra filosofia di produzione, quali sono, se ci sono, i valori che vogliamo trasmettere oltre alla nuda qualità organolettica del prodotto? (e anche qui l’accusa di ideologia è in agguato). Quando si parte da questi interrogativi ci sono le premesse per un lavoro di squadra che coinvolge tutta la filiera. Ma quando si vive alla giornata, senza una strategia di medio e lungo periodo, è inevitabile che ognuno vada per conto suo.


“Colui che conosce gli altri è sapiente, colui che conosce se stesso è illuminato.” (Lao Tzu) 
Se ti dovessi descrivere in tre aggettivi quali sceglieresti? 
Solitario, distratto, e presuntuoso, ma non tanto da negarlo. 


“Il giudice è l’interprete della giustizia.” (San Tommaso d’Aquino) 
Spesso sei giudice nei vari concorsi di vino. Ho sempre ammirato chi riconosce l’origine dei pregi e difetti di un vino o i loro vitigni. Come ti avvicini da tecnico al calice? Qual è la prima cosa che pensi all’assaggio? 
La prima cosa che penso è che dietro quel calice c’è il lavoro di tante persone, investimenti e sacrifici. Per cui prima di giudicare male un vino cerco di pensarci bene, e, nel caso, anche parlando al di fuori dei concorsi, non lo sbatto poi sui social dicendo che è cattivo. Le recensioni negative le trovo di pessimo gusto.


“Se vuoi conoscere la vera natura di un uomo, devi dargli un grande potere.” (Pittaco) 
Se potessi scegliere un superpotere, quale vorresti? 
Vorrei restare in forma e in salute almeno come oggi, se non come a vent’anni, fino all’ultimo dei miei giorni, anche a costo di non vivere molto a lungo. Più che allungare la vita dovremmo cercare di allargarla.


“Una bottiglia di vino contiene più filosofia che tutti i libri del mondo.” (Louis Pasteur) 
Qual è la bottiglia con dentro tutta la tua filosofia di vita? 
Questa è facile: quella che non ho ancora bevuto. O che ancora non è stata prodotta da nessuno dei miei clienti. 


“Il futuro appartiene a coloro che credono nella bellezza dei propri sogni.” (Eleanor Roosvelt) 
Cosa vedi nel tuo futuro? Hai realizzato i tuoi sogni di bambino? 
Non tutti, ma nel complesso il bilancio è positivo. Da laico quale sono non vedo nel futuro. Mi piacerebbe invecchiare vicino al mare, in un clima mediterraneo, coltivando un pezzetto di terra, ma non so se sarà possibile. Mi accontenterò altrimenti di continuare a vivere nel Monferrato, come negli ultimi quarant’anni, che è comunque uno dei posti più belli del mondo. 


Non tutti sanno che… 
Pratico vari sport all’aperto e suono la chitarra, anche piuttosto bene. Come ho già detto, sono un presuntuoso.





Foto credits: Mauro Fermariello, Andreas Marz

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